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Rassegna Stampa Faunistico Ambientale

Che vuol dire «benessere animale» negli allevamenti intensivi? Le risposte per allevatori e Ministero (e le idee diverse dei consumatori)

Il 94% degli italiani ritiene importante il benessere degli animali negli allevamenti e il Ministero della Salute sta definendo le nuove linee guida. Ma c’è una sfida sul significato della parola. E si gioca tra produttori, scienziati, supermercati e consumatori

Cosa significa «benessere animale»? Questa definizione può essere applicata alla produzione di carne e derivati animali senza perdere di significato? Anche se parliamo di produzione di massa in allevamenti intensivi? Queste sono domande etiche, ma anche questioni su cui in questi giorni allevatori, scienziati e… supermercati in Italia stanno proponendo delle risposte da dare ai consumatori, in particolare per quanto riguarda la produzione di suini.
Benessere e allevamenti intensivi

«Noi studiamo il benessere animale per gli allevamenti intensivi. Questa è la conditio sine qua non per garantire proteine animali a tutta la popolazione». Sgombera subito il campo da equivoci sulla sua interpretazione del significato di «benessere» Luigi Bertocchi, dirigente veterinario dell’Istituto zooprofilattico della Lombardia ed Emilia Romagna. Con sede a Brescia, l’istituto è uno dei principali in Italia. Qui Bertocchi è il responsabile del Centro di referenza nazionale per il benessere animale (Crenba), che per conto del Ministero della Salute sta definendo delle nuove linee guida per il benessere dei suini negli allevamenti italiani.

L’etica dei consumatori

Il benessere degli animali da produzione è diventato un argomento con cui gli allevatori in Italia hanno iniziato a confrontarsi per far fronte alle richieste del mercato. Nel 2016 un sondaggio Eurobarometro sosteneva che il 94 per cento dei cittadini (sia in Europa che in Italia) riteneva «importante» il benessere degli animali negli allevamenti. Un dato che si è tradotto nell’esigenza di alcune catene della Gdo di poter scrivere «allevato nel rispetto del benessere animale» sui propri prodotti. Richiesta inoltrata agli allevamenti, che adesso -insieme alle istituzioni- ipotizzano risposte che giustifichino un’etichetta del genere.
Un progetto sul «benessere per i suini» era stato annunciato già lo scorso ottobre da Silvio Borrello, capo dei servizi veterinari italiani per il Ministero della Salute. Un “cantiere aperto” affidato proprio ai veterinari del Crenba di Brescia.

La domanda di carne

Fino ad allora il Crenba aveva pubblicato delle linee guida solo per il benessere dei bovini, prese come punto di riferimento dagli allevatori e dai gruppi della Gdo (grande distribuzione organizzata) per certificare carni e formaggi. Anche in quel caso parliamo di produzione intensiva, dove il «benessere» ammette l’allevamento «a pascolo zero», con le vacche da latte confinate in stalla per tutta la vita: «Non stiamo parlando di mucche al pascolo: finché la gente mangerà carne dovremo produrla così», chiarisce ancora Bertocchi. «Consideri che la domanda di carne è destinata a raddoppiare nei prossimi 30 anni», afferma il dirigente, che parla della necessità di «educare il consumatore» ad una corretta interpretazione del termine «benessere». Un’interpretazione che adesso è molto diversa a seconda di chi sia a darla: la grande distribuzione, gli allevatori o le persone per strada.

Le norme Ue e l’Italia

Le norme UE – Il lavoro del Ministero sulla certificazione del benessere dei suini ha avuto una brusca accelerazione a metà novembre, quando una visita di ispettori per conto della Commissione europea ha bacchettato severamente l’Italia per il mancato rispetto delle attuali norme europee sul benessere.
«Le autorità italiane non hanno intrapreso azioni efficaci per applicare gli obblighi della Direttiva contro la morsicatura delle code e per evitarne il taglio routinario», si legge nell’introduzione al rapporto stilato dagli esperti UE. «I produttori di suini (italiani, ndr) sono convinti che i loro allevamenti siano in regola con la normativa, e che non sia possibile allevare suini con la coda nel sistema di allevamento italiano. Convinzioni che rappresentano un serio handicap per le autorità per cambiare lo status quo».

Il taglio della coda

La questione del taglio della coda è considerata centrale da chi si occupa di «benessere» negli allevamenti intensivi, in quanto la coda è un «indicatore» del livello di stress degli animali: dove le condizioni di vita sono peggiori, maggiori sono gli episodi di «morsicatura della coda» tra i capi. Il taglio preventivo della coda avviene proprio per evitare queste forme di «cannibalismo da stress», che potrebbero comportare effetti collaterali e infezioni. Sebbene sia una pratica vietata in Europa dal 2008 (se non in casi eccezionali), in Italia in sostanza la totalità degli allevamenti pratica il taglio della coda preventivo su tutti i capi.

La battaglia di Ciwf Italia

Smettere il taglio sistematico della coda ad oggi è anche la principale richiesta di Compassion in world farming (Ciwf), l’ong che si occupa in Italia di benessere degli animali di allevamento. «La normativa è ampiamente disattesa», afferma Elisa Bianco di Ciwf. «Riuscire ad allevare animali con la coda lunga è il principale indicatore che permette di dire che quell’ambiente è più o meno adatto alle esigenze del suino». Tra le richieste di Ciwf negli allevamenti intensivi, l’abbandono delle gabbie di gestazione per le scrofe e l’adozione di ulteriori «arricchimenti» ambientali per tutti i capi, in particolare con l’utilizzo di un suolo di paglia.

L’impegno europeo

In Europa nei giorni scorsi è stata annunciata la costituzione di un Centro europeo per il benessere animale. Si tratta di un centro di riferimento per il «benessere» negli allevamenti intensivi, che avrà sede in Olanda raccogliendo i ricercatori dei centri di referenza di Olanda, Germania e Danimarca, tutti e tre Paesi tra i principali produttori suinicoli del continente.

http://www.corriere.it/video-articoli/2018/03/19/che-vuol-dire-benessere-animale-allevamenti-intensivi-risposte-allevatori-ministero-idee-diverse-consumatori/f9661974-2b75-11e8-b646-54fc34bce5e9.shtml

 

Chi ha paura del lupo

Bolzano e Trento e altre tre Regioni: «Il divieto di abbatterli va superato»Ma gli scienziati: «Ucciderli è inutile»

«Cosa diciamo agli allevatori? Ho ancora negli occhi l’immagine dei contadini in lacrime. Un loro vitellino è stato sbranato da un lupo». Arnold Schuler è assessore all’Agricoltura della Provincia autonoma di Bolzano. Nei giorni scorsi, suo malgrado, e lo dice sorridendo, si è fatto conoscere ben oltre i confini della sua amata terra. Ha fatto notizia la petizione online in cui chiede all’Europa la possibilità di abbattere il lupo, a certe condizioni. In Italia l’animale gode di protezione elevatissima. Una a legge del 1971 ne vieta l’uccisione. Tuttavia la petizione ha ottenuto in poco tempo quasi 20.000 firme. Un fiume di consensi. Che pongono Schuler, suo malgrado, come paladino di quel vasto e trasversale fronte anti lupo che negli ultimi anni sta guadagnando terreno. Perché il lupo, dicono soprattutto allevatori e contadini alpini, distrugge gli allevamenti e mangia le bestie.

Fino al 5 per cento

La petizione è stata come un sasso lanciato nello stagno. Le acque si sono mosse e sul campo la querelle vede agire tre forze. Su un fronte ci sono le Regioni (Toscana, Veneto, Valle d’Aosta) e le due province autonome del Trentino Alto Adige che premono per il possibile abbattimento (fino al 5% dei lupi presenti in un determinato territorio); sull’altro ambientalisti e animalisti decisamente contrari; in mezzo, a mediare, ci sono i ricercatori, gli studiosi, quelli che fanno appello alla ragione e non all’emotività. Carlo Maiolini appartiene a quest’ultima schiera. È tra i coordinatori della due giorni di convegno che da domani al Museo delle Scienze di Trento esporrà i risultati di un progetto europeo sul lupo (Life Wolfalps) iniziato cinque anni fa. Sintetizza: «La convivenza tra uomo e lupo è possibile. La soluzione? Il monitoraggio sistematico di come l’animale occupa il territorio». Per molti studiosi la protesta anti lupo ha altre cause. È l’idea stessa dell’animale che fa paura. Come narra la favola di Esopo. Una tesi che non convince Edy Henriet, presidente dell’associazione allevatori della Valle d’Aosta. «Ci dicono che questo animale abita sui monti, vaga per i boschi, è solitario. Ma non è vero. Molti allevatori hanno ripreso lupi vicino al recinto di casa. Dico: le mucche non sono animali da difendere?».

Presenza naturale

Sull’arco alpino la paura aumenta. Tuttavia secondo uno studio Eurac, centro di ricerca di Bolzano, l’abbattimento non farebbe diminuire gli attacchi al bestiame. «Se si uccide un esemplare il branco non ha più guida e questo accresce i problemi», afferma Filippo Favilli, che ha elaborato il dossier. La storia che stiamo raccontando parte da un dato: l’uomo non è più abituato al lupo sulle Alpi, ricomparso da poco. Per Marco Galaverni, del Wwf, il problema è anche culturale. «È consuetudine degli allevatori far pascolare liberamente il bestiame. Ora però devono mutare atteggiamenti. Il lupo è una presenza naturale. C’è. Gli allevamenti si difendono con un pastore di guardia e con recinti». La coesistenza sarà pure possibile. Al momento però manca l’accordo tra gli uomini. Da anni si cerca di realizzare un «piano lupo nazionale». Invano. L’ultimo stop risale al 5 dicembre scorso quando la Conferenza Stato-Regioni ha alzato bandiera bianca. Tutto fermo. A dividere è sempre la norma che prevede la possibilità dell’uccisione. Da qui il senso della petizione Schuler all’Europa: l’assessore punta a una gestione autonoma. «La tutela del lupo deve rimanere questione nazionale — ha replicato Michela Vittoria Brambilla, presidente del Movimento animalista —. Si facciano passare la voglia di gridare al lupo al lupo».

http://www.corriere.it/cronache/18_marzo_18/chi-ha-paura-6a8abb64-2a22-11e8-a69c-c536cc584d87.shtml

LA NAZIONE 14_03

QN 15_03

Ambiente, il “capitale naturale” è indice di benessere

Il Rapporto sullo Stato del Capitale Naturale in Italia, redatto dal Ministero dell’Ambiente, giunge alla sua seconda edizione. Si tratta di un nuovo strumento di gestione delle politiche pubbliche introdotto di recente a livello mondiale, europeo e nazionale. Quanto sia importante il Capitale Naturale è stato riconosciuto dalle Nazioni Unite, attraverso la definizione degli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 (SDGs). Indirizzo poi recepito dall’Unione Europea (Settimo programma quadro e strategia per la biodiversità) e dalla normativa italiana (Collegato ambientale, Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile). Ma cos’è esattamente il Capitale Naturale?

La nostra prosperità economica e il nostro benessere dipendono dal buono stato del Capitale Naturale, compresi gli ecosistemi che forniscono beni e servizi essenziali: terreni fertili, boschi, mari produttivi, acque potabili, aria pura, impollinazione, prevenzione delle alluvioni, regolazione del clima. Il concetto di “Capitale Naturale” è stato strumentalmente mutuato dal settore economico per indicare il valore in termini fisici, monetari e di benessere offerto dalla biodiversità al genere umano. Il Rapporto si pone l’obiettivo prima di tutto di effettuare quantificazioni biofisiche delle varie forme di “Capitale Naturale” procedendo a un inventario sistematico e dinamico di tutti i principali stock. Per questo il Comitato per il Capitale Naturale ha organizzato una rete di raccolta dati coinvolgendo istituti di ricerca e amministrazioni pubbliche, e lo sviluppo di questo percorso richiede uno sforzo volto alla mobilizzazione delle risorse e al coinvolgimento di tutti gli stakeholders legati al Capitale Naturale del Paese.

In questo quadro un’importanza crescente avranno le valutazioni, anche economiche, dei servizi ecosistemici: attività naturali che generano un “valore” per la vita degli uomini come la purificazione naturale di acqua e aria, l’assorbimento di anidride carbonica, la difesa idraulica, la biodiversità, la rigenerazione delle fertilità dei suoli, la produzione di cibo e fibre tessili, la mitigazione del clima. Si tratta di attività che la natura svolge gratuitamente e il cui valore economico viene oggi valutato dai nuovi sistemi di “contabilità ambientale”.

Un lavoro complesso ma indispensabile per garantire all’interno delle politiche pubbliche e delle attività economiche di mercato la conservazione e la valorizzazione dello stock naturale, combattendo sprechi e inquinamento e riconoscendo ai territori benefici economici delle attività naturali.

Sempre più importanti saranno la tassazione ambientale o la considerazione dei costi ambientali e del valore nelle risorse nei sistemi di tariffazione (vedi ad esempio nel servizio idrico), nonché le valutazioni dell’efficacia ambientale della spesa pubblica in materia di ambiente.

La tassazione ambientale in Italia è in crescita dal 1980 ad oggi, passando da 20 a circa 60 miliardi di euro l’anno (3,5% del Pil e 8% del totale delle imposte e contributi). Solo una piccola parte di questo gettito deriva da imposte che hanno come base imponibile l’inquinamento o l’uso di risorse (solo l’1%). È evidente quindi che questo tipo di tassazione è destinato a crescere nei prossimi anni, riducendo eventualmente quella sul lavoro.

Un’altra ipotesi di impatto riguarda la distribuzione sui territori (e non solo sull’economia media nazionale) del valore economico delle risorse o dei prelievi sugli inquinamenti. Un modo per favorire le aree economicamente deboli, come la montagna, o particolarmente inquinate (le città), distribuendo reddito integrativo legato ad attività naturali (l’assorbimento di co2 nei boschi, la purificazione delle acque). Tutte esperienze oggi ancora molto

contenute.

In conclusione, il Rapporto è uno strumento utile per modificare in parte anche le politiche economiche e la distribuzione della ricchezza nel nostro Paese. Speriamo che ne venga fatto tesoro.

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