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La Stampa: Sarà mai possibile riuscire a gestire la fauna selvatica?

La riduzione delle attività venatorie ha favorito lo sviluppo degli animali “predatori” a scapito delle specie più miti quali i granivori e gli insettivori. Il fenomeno è aggravato dell’uso di fitofarmaci in agricoltura
06/02/2018

L’uomo si è da sempre nutrito con animali selvatici e piante spontanee. Solo in tempi relativamente recenti ha imparato ad allevare animali e coltivare i campi. La caccia e la pesca si sono evolute e dai mezzi molto rudimentali dell’uomo primitivo si è arrivati a strumenti che hanno facilitato la cattura degli animali e alle volte hanno anche favorito una forte riduzione se non l’estinzione di alcune specie animali.

 

Negli ultimi decenni, anche sulla spinta di varie organizzazioni animaliste, almeno nel nostro Paese le attività venatorie si sono molto ridotte. Basti pensare che nel 1980 i cacciatori (o meglio titolari di porto di fucile) erano circa 1.700.000 (circa 3 % della popolazione); attualmente dovrebbero essere circa 700.000 (1% della popolazione). Probabilmente sono anche molto ridotte le “uscite” di ogni cacciatore per cui anche il numero degli animali abbattuti si è drasticamente ridotto.

 

La riduzione delle attività venatorie ha però favorito lo sviluppo degli animali “predatori” a scapito delle specie più miti quali i granivori e gli insettivori. Il fenomeno è aggravato dell’uso di fitofarmaci in agricoltura che spesso influenzano negativamente l’esistenza degli animali selvatici stanziali e di piccola taglia.

 

Le conseguenze di questa situazione, apparentemente paradossale, si ripercuotono negativamente sull’ambiente, le attività agricole e zootecniche e anche sulla salute pubblica.

La presenza prevalente di specie “predatrici” di fatto sconvolge gli equilibri ambientali e facilita anche il degrado di alcuni ecosistemi che si erano “stabilizzati” nel corso dei secoli.

 

La mancanza di risorse alimentari “naturali” porta gli animali a cercare il cibo dove riescono a trovarlo provocando gravi danni. I cinghiali devastano i campi coltivati a cereali, tuberi, frutta, ecc. Anche gli storni quando possono si avventurano nei campi coltivati e in particolari negli oliveti. I cormorani fanno stragi di pesci sia negli impianti di acquacoltura, sia nei bacini idrici naturali.

 

Gli animali selvatici possono contrarre pericolose malattie infettive anche a carattere zoonosico (trasmissibili dagli animali all’uomo). Rabbia, brucellosi, tubercolosi, trichinellosi, influenza, cisticercosi, ecc. sono sempre in agguato. La prevenzione e la terapia negli animali selvatici non è agevole e ci sono diverse possibilità di infettare l’uomo in modo diretto o indiretto. Il pericolo è molto serio nei casi di bracconaggio in cui le carni degli animali cacciati sono consumate senza alcun controllo veterinario e il pericolo di contrarre pericolose malattie è veramente elevato.

 

La soluzione non può venire da un abbattimento indiscriminato degli animali ritenuti “pericolosi. È invece necessario cercare di ricostruire gli equilibri ambientali preesistenti riducendo le popolazioni animali che hanno preso il sopravvento e contemporaneamente reintroducendo le specie che sono state sopraffatte.

 

Una soluzione del genere consentirebbe di ripristinare situazioni ambientali andate perdute e renderle produttive grazie alla carne che si può ricavare dagli animali selvatici. Si potrebbe pensare a metodi di cattura e di macellazione che riducono al minimo la sofferenza degli animali.

 

Se fosse possibile tenere sotto controllo le popolazioni animali selvatiche, sarebbe relativamente facile intervenire con profilassi e terapie adeguate che migliorerebbero lo stato di salute degli animali e, nello stesso tempo, garantirebbero una buona sicurezza alimentare delle carni.

 

Qualcosa sembra che si stia movendo con il progetto di ricerca “Selvatici e buoni” promosso dalla Fondazione Una in collaborazione con l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, con il Dipartimento di Veterinaria dell’Università di Milano e la Società Italiana di Veterinaria Preventiva che ha proprio l’obiettivo di costruire in Italia una filiera tracciabile della selvaggina. La speranza è che l’iniziativa vada avanti e che porti presto i suoi frutti.

 

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